leggo per te

"Io dico per te luna, io dico per te sole, Io chiamo per te il mondo con le mie poche parole…" (Bruno Tognolini)


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Il coraggio di diventare grandi

Le storie di Benji Davies affrontano temi importanti come l’amicizia o la solitudine, le relazioni spesso complicate con il mondo degli adulti, il coraggio, la scoperta, con un tocco delicato e, ormai, inconfondibile. Le illustrazioni dai vividi colori e dal tratto morbido, mai spigoloso, avvolgono un testo semplice ma tutt’altro che banale, fatto di frasi brevi, dove anche le pause e le sospensioni racchiudono un tempo e uno spazio ben precisi in cui far sostare il pensiero e l’immaginazione. I protagonisti non di rado si trovano ad affrontare delle prove, o comunque a misurarsi con esperienze che pur facendo parte del quotidiano hanno il sapore della conquista, della crescita.

“Tad”, l’ultima arrivata, è, ancora una volta, una storia in cui la sensibilità dell’infanzia – con i suoi slanci e le sue paure – si misura con qualcosa di grande e sconosciuto che in parte attrae e in parte respinge. Qui la percezione di una fase di passaggio e di trasformazione è più esplicita e ben rappresentata dalla piccola rana, o meglio “quasi rana”. Il termine “girini” è usato più avanti e una volta sola, forse per sottolineare che Tad è già, in nuce, se stessa, ma deve imparare a crederci, a riconoscersi, e per farlo deve sapersi rispecchiare negli altri (e alla fine questo aspetto sarà chiaro).

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All’inizio della storia troviamo Tad che vive in uno stagno insieme ai suoi fratelli e sorelle. Tad è la più piccola e fatica a stare dietro agli altri, mentre saper nuotare abbastanza velocemente è ritenuto fondamentale per sfuggire al temuto Big Blub, un enorme e malvagio pesce che vive dove le acque sono più torbide e buie, aspettando di catturare qualche incauto malcapitato.

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Col passare del tempo, tuttavia, la piccola rana si accorge non solo che gli altri fratelli sembrano crescere più velocemente di lei…

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… ma che un giorno dopo l’altro essi tendono a sparire misteriosamente.

Dove sono finiti tutti? Saranno forse stati catturati dal terribile Big Blub? Tad, nonostante i timori, non si dà per vinta. Sarà anche piccola, ma le risorse non le mancano. E’ forte e intelligente. Dentro di lei sta germogliando qualcosa: una spinta che la fa sentire diversa e che la convince a intraprendere una nuova via… quella sorta di “danza nella pancia”, come la stessa Tad la definisce, che la porterà a varcare il confine fra un mondo noto, ma scuro e limitante, e un altro spazio sconfinato, tutto da scoprire.

Chiunque viva e lavori a contatto coi bambini sa che “diventare grandi” è un desiderio fiero che fa brillare gli occhi, ma anche una fatica che si manifesta con quel nodo allo stomaco, quel grumo di impaziente esitazione che un abbraccio, una carezza, una parola possono contribuire a sciogliere. E’ per questo che leggiamo insieme le storie: per nuotare in acque quiete, o per emozionarsi fra salti e tuffi, sapendo che quella voce è lì, per noi.

Benji Davies, Tad, testo italiano di Anselmo Roveda, Giralangolo 2019.


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Le grandi domande del piccolo Inuit

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Oggi vi parlo di un albo scritto e illustrato da due autori italiani e pubblicato in Francia, in cui mi sono imbattuta mentre svolgevo delle ricerche riguardanti le storie sul freddo, la neve, l’inverno. Starete pensando che non dimostro molto tempismo, dal momento che da qualche giorno ha avuto inizio la tanto attesa primavera. Vi sarete aspettati, piuttosto, un albo illustrato pieno di alberi in fiore e prati verdi, riscaldati dal rinnovato tepore del sole! Il fatto è che quando un libro mi piace, ho una gran voglia di parlarne, presto, senza attendere troppo; inoltre, i post “stagionali” non sono mai stati il mio forte. In determinati periodi dell’anno e in occasione di alcune ricorrenze, lascio di buon grado la voce e lo spazio a chi ha avuto la pazienza di raccogliere i titoli più adatti a “celebrare” quei momenti.

La giovane e indipendente casa editrice Sarbacane (è nata nel 2003), specializzata in libri per bambini e ragazzi “al tempo stesso esigenti e alla portata di tutti” ha risposto gentilmente alla mia richiesta di conoscere meglio quest’opera (edita nel 2012) che a tutt’oggi non è stata tradotta in italiano. I nomi di Davide Calì e Maurizio A.Quarello, in copertina, mi avevano naturalmente incuriosita e la mia passione per le ambientazioni nordiche e le storie attinenti ad altre culture ha aggiunto il resto.

Petit Inuit et le deux questions  è una fiaba incantata, sospesa nel tempo, ispirata alle leggende sciamaniche che tanto hanno influenzato le antiche tradizioni Inuit. E’ la storia di un bambino che desidera sopra ogni cosa diventare un grande cacciatore (ricordo che il popolo degli Inuit vive prevalentemente di pesca e di caccia). Il suo sogno è così grande da renderlo impaziente: non può, non vuole aspettare di diventare grande per sapere se si avvererà. L’altra forte curiosità del bambino, la seconda domanda, riguarda cosa si trova oltre il lago ghiacciato. Un luogo lontano e misterioso al quale non si è mai avvicinato.

Che fare? Il piccolo Inuit, in compagnia del suo fedele cane, decide di rivolgersi agli animali che incontra, sperando che essi sappiano dare una risposta alle sue due grandi domande. Invece, nessuno di loro può aiutarlo in questo. Tuttavia, ciascun animale ha una dote, un dono che permette di conoscere delle cose nascoste: così ad ogni incontro, al bambino vengono svelati dei particolari che gettano una luce sul suo futuro.

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Finalmente la balena gli suggerisce di recarsi sull’isola che si trova proprio nel mezzo del grande lago ghiacciato, dove abita “colei che tutto sa“. Di chi si tratta? Chi può conoscere il tempo e leggere il futuro? Cosa troverà il piccolo Inuit sull’isola?
Il grande mammifero si offre di accompagnarlo. Qui il tono mitologico del racconto si fa ancora più denso e anche spaventoso: l’isola dove sono diretti è niente meno che l’Isola della Morte.

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Ad attendere il piccoli Inuit, però, non si trova nulla di veramente terrificante, bensì una maestosa e saggia alce bianca.

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Il sapiente animale saprà insegnare al bambino come guardare con fiducia al proprio futuro: e così, nelle ultime pagine, sarà svelato il significato profondo della storia…

Al tono da fiaba “classica” della storia contribuiscono intensamente le suggestive illustrazioni, vivide nelle naturali tonalità fredde. Se conoscete un po’ la lingua francese, apprezzerete sicuramente il racconto che si dipana seguendo uno schema semplice e chiaro (ad ogni pagina un incontro e, quindi, un dialogo fra bambino ed animale), con uno stile che si rifà alla tradizionale narrativa orale.

Rivolto ai bambini dai 4 anni in su, Petit Inuit et le deux questions può rappresentare una buona opportunità, anche per i giovani lettori della scuola primaria, per conoscere i costumi del popolo Inuit attraverso lo strumento affascinante e immediato della fiaba. Pertanto, speriamo di vederlo presto anche in lingua italiana!

 

 

 

 


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Io sono con te

Le storie che hanno degli orsi come protagonisti ci piacciono proprio tanto: hanno un sapore “classico” e un atmosfera confortevole, calda come una tana. Piccola orsa, opera prima di Jo Weaver (suoi il testo e le illustrazioni), ricorda da vicino due libri che io e la mia piccola lettrice amiamo moltissimo: Non dormi, piccolo orso? e Sogni d’oro, piccolo orso di Martin Waddel, con le illustrazioni di Barbara Firth. Anche in quel caso si affrontava il rapporto fra l’orso adulto (Grande Orso) e il cucciolo (Piccolo Orso), in equilibrio fra l’affettuosa tenerezza e una naturale spinta verso l’autonomia.
Qui la storia è declinata “al femminile” e non è difficile immedesimarsi nell’intimo rapporto che rispecchia quello fra una madre e una figlia piccola.

Le illustrazioni di Piccola Orsa, tutte nelle diverse tonalità di grigio,  avvolgono il lettore come una nuvola.

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Elegantissime e poetiche, ma al tempo stesso essenziali. La scelta del bianco e nero contribuisce ad ammantare di tonalità fiabesche l’ambientazione naturale e a suggerire la sacralità della natura stessa, la sua bellezza profonda e senza tempo. L’entusiasmo di fronte alle meraviglie che si dispiegano davanti agli occhi curiosi dell’orsacchiotta è palpabile, ma si avverte anche una sorta di commosso stupore, di consapevole riverenza.

 

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Fa da contrappunto un testo essenziale, grazie al quale si chiamano per nome le cose veramente importanti e si lascia il resto ad una comprensione silenziosa, frutto dell’esperienza vissuta. Da sottolineare la traduzione di Carla Ghisalberti, fine esperta di letteratura per l’infanzia e fra i pionieri della promozione della lettura, autrice dello splendido blog Lettura candita.

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La parola chiave è: “insieme“, più volte ripetuta. Mamma orsa e la sua cucciolotta compiono l’una accanto all’altra questo viaggio di esplorazione alla scoperta del mondo. Grande Orsa è la guida che insegna con l’esempio più che con le parole, attraverso una connessione profonda con la natura e i suoi ritmi. Essa trasmette la meraviglia e l’incanto, la gentilezza e il rispetto, l’autonomia e la cura di sé, ma anche l’attenzione e la prudenza. Sa quando è il momento di lasciarsi andare ai giochi, o quando è opportuno tornare al riparo della propria tana. C’è un profondo rispetto dei tempi, delle stagioni e, quindi, delle fasi della vita.

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La storia si conclude con l’odore della neve che copre la terra e il confortevole tepore della caverna: l’inverno contiene in sé l’attesa fiduciosa del nuovo risveglio.

 C’è un periodo in cui mamme e cuccioli costruiscono quell’attaccamento sicuro, il quale costituisce le fondamenta della futura autonomia. C’è un tempo in cui è giusto e naturale essere sempre insieme, vicini, per saggiare quel mondo che un giorno i piccoli cominceranno ad esplorare da soli. Piccola Orsa narra con delicata naturalezza proprio questa stagione di crescita.

Qui la scheda del libro dal catalogo online di Orecchio Acerbo.


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La città della stella

Avrei voluto parlarvene in occasione della Giornata della Memoria, ma non ci sono riuscita. Poi, ho pensato che sarebbe stato interessante proporre una simile lettura qualche giorno dopo, a riflettori ormai spenti. E’ fondamentale che si parli di libri come questo, che si producano e diffondano testimonianze, che si onori e coltivi la memoria. E’ altrettanto vero che certe storie richiedono tempo per una silenziosa e approfondita considerazione.

Il maggiore campo di concentramento della Cecoslovacchia, operante dal 1941 al 1945, con un’alta concentrazione di “detenuti” bambini: questo fu il ghetto di Terezín. La maggior parte dei prigionieri perì ad Auschwitz. Fino a quando fu possibile, alcuni adulti si impegnarono a svolgere, in forma clandestina, il ruolo di educatori e insegnanti per questi bimbi e ragazzi.

Nel diciottesimo secolo, la fortezza di Terezín fu edificata in onore dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Il nucleo centrale, la cosiddetta “piccola fortezza”, aveva la forma di una stella. Circa due secoli dopo, divenne il teatro della triste sorte dei più indifesi.

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La città della stella è una recentissima pubblicazione delle Edizioni del Gruppo Abele. Nata dall’omonima associazione torinese, EGA è una casa editrice piccola, ma battagliera e fieramente impegnata nel sociale. Sfogliandone il catalogo, non  è difficile comprendere quali siano i temi perseguiti, sia storici che di attualità. Non stupisce, pertanto, la presenza di questo prezioso albo illustrato.

Siamo di fronte a un libro di non grande formato, ma denso di contenuti e curato nella confezione, solida e sobria. Al testo delicato e toccante di Sebastiano Ruiz Mignone fanno eco le illustrazioni raffinate ed evocative di Sonia Maria Luce Possentini, un’artista di rara e onirica eleganza che non ha certo bisogno di presentazioni. Spesso ci chiediamo come raccontare questo dolore indicibile ai più giovani fra i lettori, come affrontare – con quali parole? Con quali immagini? – una tragedia così sconfinata e raggelante. I due Autori si sono cimentati con profonda sensibilità e con un’attenzione che, pur non mitigando la cruda realtà, conserva ed emana un rispetto pieno di umanità. Come se si volesse incedere in punta di piedi attraverso le vie e le vite di Terezín. Colpisce la narrazione di S. Ruiz Mignone, che si cala realisticamente nei panni di un ragazzino, attraverso un linguaggio semplice e il modo schietto e puro di osservare il mondo.

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Sino alla fine, c’è stata musica a Terezín. Ci sono stati i cori e i disegni dei bambini.

E c’è stato un direttore che si mise in testa di fare un’opera per i più piccoli: la storia di Brundibar. Perché “la musica ci scaldava i cuori ed era l’unica consolazione. Ascoltandola la speranza tornava“.

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Fra i giovani prigionieri, spicca la figura di Honza. Anche lui, come l’io narrante della storia, ha 14 anni: “l’età dei giochi”. Forte, coraggioso e generoso. Sempre pronto a incoraggiare gli altri, soprattutto i più piccoli. Un amico vero. E’ lui a interpretare Brundibar, con un bel paio di baffi scuri per sembrare più vecchio.

Passa il tempo e i treni non smettono di arrivare nel ghetto, per portare via le persone. La destinazione, purtroppo, è nota.

Ad Auschwitz, gli “orchi” controllano l’altezza dei bambini. Per avere salva la vita, bisogna raggiungere i 150 cm.
E Honza arriva soltanto a 149.

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Sarebbe stato un modo per ricordarlo, invece così non mi resta che immaginarlo ancora sul palco con gli altri piccoli attori mentra fa il cattivo. Forse il ricordo più bello di quella recita fu quello quando potei levarmi quella brutta stella gialla e sentirmi di nuovo libero“.

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Una lettura che vorremmo trovare nelle biblioteche scolastiche, perché affronta un capitolo della storia della Shoah forse meno conosciuto di altri, con parole e immagini in perfetto equilibrio fra loro.

Qui la scheda del libro sul sito di EGA Edizioni.


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Il re che non voleva fare la guerra

Re Fiorenzo non era un sovrano come tutti gli altri. A lui non interessavano potere, ricchezze e conquiste.
Fare la guerra?
Macchè. Proprio non se ne curava.
I suoi consiglieri avevano un bel daffare a convincerlo: Fiorenzo non voleva alcun esercito.

Del resto, a cosa serve un esercito se non si hanno dei nemici?

Molto meglio rilassarsi, fare delle belle passeggiate in mezzo alla natura…

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Un brutto giorno, tuttavia, il re fu costretto a partire per la guerra. Radunò un improbabile esercito di giovani sudditi che non sapevano nulla di armi e strategie militari e iniziò ad attraversare un regno dopo l’altro.

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Ad ogni tappa, invece di conquistare nuovi territori, perdeva uno dei suoi soldati. Il contadino, infatti, decise di restare in un regno dai vasti campi da coltivare; la giovane cuoca si stabilì in quello ricco di dolcissimi frutti…

Alla fine, giunto a Finimondo, re Fiorenzo rimase solo, o almeno così credeva. Davanti a lui, lo spettacolo di un’alba indescrivibilmente bella.

In realtà, non era l’unico ad ammirare quella meraviglia… Forse, alla fine del suo lungo viaggio, Fiorenzo aveva finalmente trovato un amico. Sicuramente, aveva imparato qualcosa di molto, molto importante.

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Quando tornò a casa, ormai tutto gli era chiaro. Esisteva sì qualcosa di veramente prezioso, ma non si poteva conquistare. Per fortuna!

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Il re che non voleva fare la guerra è un albo edito da Giralangolo nella collana Sottosopra. Quest’ultima è stata ideata da Irene Biemmi, studiosa di pedagogia di genere e pari opportunità. Si tratti di pubblicazioni pensate per contrastare gli stereotipi, per rovesciare i luoghi comuni nell’ambito educativo e non solo.

Impossibile non parteggiare per il pacifico re Fiorenzo, leone mansueto, amante della natura. All’inizio può apparire con la testa fra le nuvole, ma il viaggio di formazione che lo attende lo ricondurrà a casa più consapevole, più saggio.
Le illustrazioni intense e poetiche, pregne di tonalità fiabesche, la rendono una storia adatta ad affrontare le tematiche della guerra e della pace con i più piccoli.

Vi invito a visitare il sito dell’illustratore, Sandro Natalini, e quello dell’associazione di cui fa parte l’autrice Lucia Giustini. Qui la scheda del libro sul sito di Giralangolo.

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L’amicizia è… una cioccolata calda per l’anima

Ci sono storie che arrivano al momento giusto. Ad esempio, capitano fra le mani in quei lunghi giorni d’inverno, freddi e tersi, in cui le albe e i tramonti hanno colori indescrivibili. Giorni e notti in cui si sta così bene al calduccio, sotto le coperte, con un buon libro. Magari, c’è anche un’influenza stagionale da sopportare: si sa, le belle letture aiutano a farla passare prima…

Questa è una storia che arriva dal Nord, dove il gelo è una cosa molto seria. E del Nord ha il sapore e lo stile: sobria eleganza, atmosfere “lindgreniane” che pullulano di bambini vispi e creativi, nitore poetico.

Questa è la storia di Stìna. Siete infreddoliti, un po’ raffeddati, annoiati? Sedetevi, prendete una tazza di cioccolata (se avrete pazienza, Stìna vi svelerà la sua ricetta speciale, la migliore che abbiate mai assaggiato) e assaporatela insieme a me.

 

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Per ingannare il freddo, che proprio non riesce a sopportare, Stìna le inventa tutte. Muffole scaldatazza, berretti scaldateiera, frigorifero doubleface. Inganna il tempo lavorando a maglia (anche senza ferri… alla fine del libro scoprirete come si fa!) e preparando leccornie (un’ottima scusa per tenere il forno sempre acceso!).
All’inizio, quasi non si accorge dei bambini che giocano fuori. Poi, li scorge dalla finestra. Ma come faranno a resistere?!!

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Nel frattempo, i giorni si fanno sempre più gelidi e scuri. Di uscire no, non se ne parla…

 

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… sino al momento in cui qualcuno non bussa alla porta.

 

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I due ragazzini portano davvero “una ventata di novità” nella casa e nella vita di Stìna. Lei non se ne rende subito conto, ma fra canti, giochi e chiacchiere…

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… forse c’è “qualcosa” in grado di scaldarci veramente, nel profondo di noi stessi.
E Stìna comincia a pensare.
E a cambiare.

Non vale la pena sprangare la porta di fronte all’Amicizia. Alla vita che ci aspetta, fuori.

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Le lezioni antifreddo di Stìna è l’opera con cui Lani Yamamoto, scrittrice americana-islandese ha esordito nel panorama della letteratura per ragazzi. Grazie a questo libro è  stata nominata per il Premio del Consiglio Nordico per la letteratura infantile, nel 2014.

Le tavolozze dominanti sono quelle, appunto, dei colori freddi. Tutto, dal carattere del testo alle linee che tratteggiano le figure, emana una garbata frugalità. Nella loro moderna essenzialità, le illustrazioni richiamano un sentore più antico, come la Pippi di Ingrid Vang Nyman che prepara le frittelle per Tommy e Annika in Villa Villacolle, o i simpatici visini dei bambini-folletto di Elsa Beskow. Ne deriva un tratto personalissimo, che attinge dalla tradizione nordica, avvolgendola con un gusto contemporaneo e frizzante. Il calore dell’amicizia, il significato profondo della trasformazione di Stìna che impara a superare le proprie paure, qui non conoscono alcuna declinazione sentimentalistica. La conquista della ragazzina sta tutta lì, in quell’immagine in chiusura, quando la vediamo in mezzo alla neve, dolcemente infantile e furbetta al tempo stesso, mentre cerca di prendere i fiocchi con la lingua.

La storia di Stìna, pubblicata in lingua originale per i tipi di Crymogea, casa editrice di Reykjavik, è giunta in Italia – tradotta da Sara Ragusa – grazie a Terre di Mezzo Editore, una casa che da anni si distingue per l’originalità e la varietà del suo catalogo. Visitando il sito, potete anche sfogliare le prime pagine del libro.

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PS
Per gli amanti della cioccolata calda: se proverete la ricetta di Stìna, che potrete trovare alla fine del libro, fatemi poi sapere cosa ne pensate 😉


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C’era una volta… un pezzo di legno

C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.”

Questo è l’incipit di uno dei più importanti e amati libri per ragazzi, diventato una delle opere imprescindibili della storia della letteratura dell’infanzia (e non solo). Pinocchio è una sorta di “mostro sacro” che ha conosciuto, negli anni, svariate edizioni, letture, illustrazioni, trasposizioni cinematografiche e “riduzioni”. Quando, alcuni mesi fa, ho saputo che Alessandro Sanna si sarebbe cimentato in una personale “lettura per immagini” del capolavoro di Collodi, ho provato più volte a immaginare il risultato. Dal momento che era già stato reso noto il titolo della pubblicazione, ero terribilmente incuriosita da quella parolina: prima.

Prima.
Prima di Pinocchio?
Quale fu la genesi, non letteraria ma ontologica, di questa storia senza età e di questo burattino di legno, perennemente sospeso fra fantasia e realtà, ironia e malinconia, paura e avventura, bontà e fragilità?

In quel “prima” c’è tutta la forza immaginifica, la passione e il desiderio di buttarsi a capofitto in un’avventura, in un viaggio di fantastica formazione. Ancor prima di iniziare a sfogliare l’albo, quell’avverbio nel titolo ha un effetto spiazzante e ti fa trattenere il fiato.

Poi, l’esplosione.

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Assistiamo alla nascita di questo legno, di questo albero-matrice. La sua creazione – dopo l’impatto del meteorite con la terra – viene narrata coi colori e le tonalità del mito. Il lettore viene così trasportato, come nell’altro meraviglioso libro “senza parole”, Fiume Lento, nel mondo artistico tipico di Sanna: e non può non essere affascinato dall’uso sapiente del colore e dalla cura con la quale si rivelano le sfumature. In Fiume Lento l’acqua era l’elemento fondamentale; qui è il cielo. L’albero è un ponte naturale, e al tempo stesso fortemente simbolico, fra acqua, terra e cielo. Le prime tavole celebrano un inizio che racchiude in sé tanti inizi, così come una storia che è divenuta un classico racchiude in sé diversi rivoli di narrazione.

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Questo “pezzo di legno” si distacca e si allontana per andare alla ricerca della propria libera identità; le sue avventure sono evocate con pennellate intense nei toni del blu, del rosso, del viola. Ritroviamo la passione dell’Autore per la natura, l’alchimia fa i diversi elementi, la profondità dei cieli, delle acque, della terra stessa. Schizzi neri, flessuosi, dinamici ed eleganti rivelano un contorno di personaggi che richiamano da vicino coloro che accompagneranno il burattino di legno.  Dal gatto e la volpe al grillo, dal possente Mangiafuoco alla balena, per arrivare al serpente dalla coda fumante, forse meno presente nell’immaginario dei lettori (nel libro di Collodi, Pinocchio lo incontra mentre sta per tornare alla casa della fata: il rettile finirà col morire letteralmente “scoppiando” dal ridere).

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capture8Ormai maturato in seguito alle vicissitudini affrontate, il pezzo di legno comincia a germogliare, sino a diventare a sua volta un albero. Qui i toni si fanno più freschi e delicati: azzurro, bianco, verde.

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In chiusura, vediamo arrivare un uomo con un asino: colui che finirà col raccogliere da quell’albero il famoso pezzo da catasta (“così inizia la storia di un pezzo di legno“).

Come altre opere di Sanna, Pinocchio prima di Pinocchio si può affrontare partendo da differenti chiavi di lettura. Siamo di fronte a un personaggio che, da sempre, rappresenta la libertà, la fantasia, ma al tempo stesso le debolezze e le inquietudini della vita. Questo albo illustrato ne rispecchia la complessità e la profondità e implica una conoscenza approfondita e riflessiva dell’originale opera di Collodi (ben lontana da certe letture riduttive che hanno, nel tempo, snaturato la vera essenza della storia). E’ un omaggio da cui traspare un amore riverente per un classico che ha ricoperto un ruolo importante nell’infanzia di molti di noi. Le suggestive tavole sono permeate dal personalissimo tocco dell’artista. Ampie, ariose, di un’eleganza istintiva, non ricercata, apparentemente “semplice” (ma di quella semplicità che nasconde un lungo e ragionato lavorìo di osservazione, scandito da scelte accurate).  Le immagini sono permeate da una forte carica narrativa: la loro successione – in piccoli riquadri o illustrazioni a tutta pagina – suggerisce i vari momenti, le pause, le svolte, proprio come nella lettura.
L’armonia e l’energia della natura rappresentano da sempre un tema assai caro all’Autore: qui assistiamo allo svolgersi di un legame profondo, ancestrale, dal quale emerge l’identità del protagonista.

Vogliamo dunque immaginare che quell’umile pezzo di legno destinato al camino abbia avuto una storia antica. Una genesi e una trasformazione capaci di infondere in esso quel pizzico di insondabile magia, risvegliato dall’affetto paziente di un vecchio falegname e da una bambina dai capelli turchini (come il cielo che ammanta di sé questo albo prezioso).

Qui la scheda del libro sul sito dell’Editore Orecchio Acerbo e il video grazie al quale è possibile vedere come nascono gli acquerelli di Alessandro Sanna.

Vi invito anche a vedere e osservare questo video dedicato al workshop sul silent book che Alessandro Sanna ha animato lo scorso ottobre durante il Buck Festival di Foggia.


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Così felicemente selvaggia

A noi piacciono i bambini un po’ selvaggi, quelli che passano ancora molto tempo all’aperto, a inzaccherarsi le scarpe fra una perlustrazione e l’altra. Il mondo infantile e quello naturale hanno una connessione meravigliosamente stretta, spontanea, con la quale non bisognerebbe interferire più di tanto. Nutrendo simili convinzioni, non è stato difficile provare un istantaneo moto di simpatia per il visino furbetto di Selvaggia che campeggia sulla copertina di una delle ultime novità di Settenove Edizioni.
Selvaggia è una figlia della foresta: gli orsi le hanno insegnato come procurarsi il cibo, le volpi sono le sue migliori compagne di gioco, mentre dagli uccelli ha appreso il linguaggio. Non si sa come sia arrivata nel cuore del bosco, da neonata, ma una cosa è certa: lì si sente a casa, libera e felice, irrimediabilmente e allegramente selvatica.

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La sua vita scorre serenamente, fra una scorribanda e l’altra. Gli animali si prendono cura della bambina: fra di loro c’è una comprensione perfetta e istintiva. “Lei capiva, ed era felice“.

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Un giorno, però, un’altra coppia di… strani animali scopre Selvaggia nella foresta. I due si sentono in dovere di portarla nel cosiddetto mondo civilizzato.

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La bimba finisce nella casa di uno scienziato, il quale si dedica allo studio di quella selvaggia creatura senza prestare minimamente attenzione al benessere della piccola. Secondo questi uomini adulti, infatti, Selvaggia ha maturato pessime e animalesche abitudini e deve essere corretta.

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capture6La bimba, stretta in un vestitino dal colletto inamidato e con le scarpine di vernice nera – lei che non conosceva né abiti né calzature! – viene costretta a usare le posate e a giocare come le altre bambine. Deve anche sopportare noiose lezioni in cui il professore cerca disperatamente di insegnarle a parlare la lingua degli esseri umani. Come potete facilmente immaginare, non si ottengono i risultati sperati! La piccina è molto triste, non capisce nulla di quello che vede, non riconosce le strane abitudini delle persone che vorrebbero “educarla”. Solo i due animali domestici – un cane e un gatto – sembrano percepire il suo stato d’animo e le restano accanto con muta, affettuosa solidarietà.
Fino al giorno in cui Selvaggia si ribella. Si libera da tutti quegli inutili orpelli e scappa via, per tornare nella foresta. Nessuno cerca di impedirglielo, la considerano ormai un caso disperato. Il cane e il gatto, però, la seguono nei boschi…

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Selvaggia è l’opera prima di Emily Hughes, giovane autrice ed illustratrice originaria delle Hawaii, ma residente in Gran Bretagna. Una fiaba che richiama alla memoria, pur coi differenti esiti, le vicende di Mowgli, il celebre bimbo indiano perdutosi nella jungla frutto della penna di R. Kipling; ma anche  Il ragazzo selvaggio, film diretto nel 1970 da F. Truffaut e ispirato ad una storia vera. Nell’albo della Hughes le illustrazioni costituiscono la vera “voce” narrante: vivide, piena di eleganza e sospese in un’atmosfera onirica. Il gusto per la decorazione e per la cura minuziosa di certi dettagli si sposa con un tocco di delicato umorismo, dando così vita ad una foresta lussureggiante e a una fauna dinamica e operosa che sembrano davvero respirare. Per conoscerne meglio lo stile, così espressivo e sognante, potete visitare il suo blog.

Per Settenove si tratta di una coedizione con la britannica Flying Eye Books, una casa editrice nata nel 2013. Questa è la pagina dell’edizione britannica e vi invito a leggere questa interessante recensione sempre in lingua inglese, dove si sottolineano gli aspetti della lettura che più colpiscono tanto gli adulti quanto i bambini. Infatti, pur avendo un testo sobrio e sintetico, la storia suscita molteplici considerazioni. Selvaggia è un tributo al nostro bambino interiore e all’infanzia libera e non ancora inibita dalle consuetudini; nel contempo, vi si celebra la natura incontaminata e il legame profondo e primordiale con essa. Selvaggia è un’anticonformista, non c’è comunicazione fra lei e gli adulti che cercando di “addomesticarla” e non soltanto per un problema di linguaggio, quanto per una questione di sentire. Non a caso gli animali domestici sono gli unici ad affezionarsi a lei e, alla fine, la seguono per riconquistare la libertà. Nel mondo degli esseri umani, la bambina ci appare come imbruttita e bisbetica, mentre il ritorno all’ambiente selvatico la trasforma nuovamente in un essere pieno di grazia e di bellezza. “Lei capiva ed era felice“: per Selvaggia la vera conoscenza risiede lì, nella foresta, dove può essere se stessa. E noi? Quanto ci pieghiamo alle usanze e alla disciplina, magari per essere accettati, e quante volte, invece, sappiamo essere noi stessi anche a costo di essere criticati, giudicati? Esiste solo una modalità, un unico copione che stabilisce come debba comportarsi una “brava bambina”? E il pensiero potrebbe correre oltre, per affrontare altri temi importanti come l’incontro/scontro fra le culture e le usanze dei popoli, nonchè il concetto stesso di “civiltà”. Selvaggia è una fiaba “verde” che si presta a diversi livelli di lettura anche negli ambienti educativi; per tutti questi motivi penso che l’apprezzerete quanto noi!

Qui la scheda del libro sul sito di Settenove, dov’è possibile visualizzare un’anteprima.


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Le case degli animali

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Uno degli aspetti che più amo dei viaggi in treno o in auto (da passeggera) è la bellezza del veder scorrere davanti agli occhi le abitazioni, provando a immaginare – da una luce accesa, un profilo, o un altro elemento messo in evidenza – come sono realmente quelle case, chi ci abita, quale atmosfera richiamano. In quel particolare viaggio che è la lettura, riscopro la stessa confortevole sensazione nel “perdermi” nelle illustrazioni che rappresentano le dimore. Sarà forse un’eredita del tempo trascorso a gustare le immagini delle calde e accoglienti tane degli animaletti di Boscodirovo, con tutti quei barattoli di conserve, gli attrezzi, le mensole… Sarà la convinzione che le stanze e gli oggetti – con la loro disposizione – raccontano moltissimo dei loro proprietari. Il fatto è che sfogliando per la prima volta Le case degli animali di Marianne Dubuc – edito da Orecchio Acerbo -ho avvertito subito piacevoli e familiari sensazioni.

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La storia è semplice e sobria, adatta ai lettori più piccoli. Il testo, infatti, prepara e suggerisce ciò che andremo a scoprire grazie alle minuziose figure, le quali rivestono un ampio e denso ruolo narrativo. Un lunedì mattina, Topo Postino inizia il suo giro di consegne nelle diverse case degli animali. Ciascuno aspetta una lettera o un pacco e il topo ha il suo bel daffare per raggiungere tutti! Ma… di chi sarà l’ultimo pacco da consegnare?!! Lo scopriremo giunti all’ultima casa alla quale bussare!

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Con un tocco gentile e non privo di deliziosa ironia, Marianne Dubuc coglie gli animali nelle loro diverse caratteristiche, raffigurando le loro tane con minuziosa ed elegante premura, rendendole così vivaci e palpitanti. Ad ogni sguardo, si coglie un nuovo particolare che regala spessore e personalità alle case e ai loro simpatici abitanti. C’è la lunghissima buca del serpente che attraversa più pagine, la casa “acquatica” dei coccodrilli, il piccione viaggiatore che si documenta fra mappe e cartine, il drago che offre le migliori salsicce arrostite, i pipistrelli che, naturalmente, di giorno dormono. Sott’acqua, sulla scrivania del polpo non manca un bel calamaio con l’inchiostro nero nero; nella casa del lupo, che si sta limando le unghie affilate, tre porcellini travestiti da ladri stanno portando via di sottecchi alcune pecorelle; sul tetto dell’igloo a più piani dove vivono i pinguini, il cannone spara ininterrottamente la neve, mentre nel pollaio la gallina insegna l’aritmetica ai pulcini attraverso la conta delle uova…

Marianne Dubuc, già nota in Italia come autrice dell’incantevole Il leone e l’uccellino (sul quale vi consiglio l’accurata recensione di Milkbook), è una giovane artista del Québec. Le sue opere sono caratterizzate da poche, cesellate parole (nell’edizione italiana la traduzione è a cura di Paolo Cesari) che fanno da contrappunto a illustrazioni originali ed espressive, piene di garbo, velate da un’ironia gentile.  Vi consiglio di visitare il suo blog e, naturalmente, il suo sito!
Concludo invitandovi a soffermarvi su alcuni particolari che descrivono meglio delle mie parole lo stile dell’autrice: la casa della gazza ladra (con tanto di manifesto “wanted!” affisso al tronco dell’albero!)…

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… e quella, “portatile” della tartaruga, la quale indossa i pattini per sfatare la sua proverbiale lentezza!

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Un albo illustrato delizioso che non mancherà di affascinare i lettori più curiosi di tutte le età!

Qui la scheda del libro sul sito di Orecchio Acerbo.


1 Commento

Ma i tuoi SI che fine hanno fatto?!

Ci sono i che no aiutano a crescere.
E poi ci sono i sì.
Anche i sì aiutano molto a crescere, a crescere insieme. Con un bel sacco pieno di sì, possiamo andare molto lontano. Garantito. Ma no, non nel senso che si deve dire sempre sì, che tutto deve andar bene, che… “fa’ quel che vuoi, basta che mi lasci in pace“. Quelli sono solo deboli assensi.
Qui ci riferiamo ai SI forti e chiari. Quelli che raddrizzano le cose quando vanno storte. Sono anche i più difficili da dire, soprattutto in certi momenti (quando un bel NO, magari condito da un bell’urlo, farebbe molto più comodo).

Oggi vi parlo di un albo de Lo Stampatello Editore, una di quelle case editrici per cui abbiamo un debole (ve lo abbiamo già detto, vero?!). L’illustratore è niente di meno che Gek Tessaro, mentre il testo è di Francesca Pardi. Più sì che no è una storia che mi è piaciuta subito, forse perché mi ricordava qualcosa… o, meglio, qualcuno… !

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Avrete sicuramente presente una di quelle mattinate in cui il vostro pargoletto mette a dura prova la vostra pazienza con una successione di NO, in ordine crescente di intensità. No al latte, no a quella maglietta, no allo spazzolino da denti… Il tutto mentre voi dovete riuscire a fargli fare una colazione sufficientemente nutriente, nonché a rendervi presentabili prima di andare a scuola e al lavoro…

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In questo simpatico e coloratissimo libro, si descrive un dialogo spassoso fra una mamma e il suo piccolo in cui non è difficile riconoscersi. Le immagini intense ed espressive di Tessaro, con la sua inconfondibile tecnica così vicina al mondo infantile, fanno da eco alle emozioni del bimbo. E la mamma? La mamma fa una cosa fantastica…

Quando sembra che stia per arrabbiarsi sul serio, inverte la rotta e sfodera un trucco. Sorprende il figlio con ironia e fantasia: non lo riprende dall’alto, ma si mette a giocare con le parole e con le immagini. I NO si trasformano in SI e l’atmosfera muta velocemente…

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… e i due non usciranno da casa coi musi lunghi, potete esserne certi!!!

Una lettura spassosa che vi invito a condividere coi vostri bambini e, perché no, a mettere in pratica!

Qui la scheda del libro sul sito de Lo Stampatello.